CantaStorie – Per voce sola

CANTASTORIE – PER VOCE SOLA


Foto di Luca Squatrito da Performance Pulse (primo studio)
da questo racconto prende vita la partitura orale per la perfomance Pulse

Una storia esiste solo quando qualcuno la racconta.

Me lo disse Abula, ridendo della mia faccia rossa e indignata.

Sentivo gli occhi bruciare di sonno e di rabbia. Due fessure sottili costrette, sentivo anche questo, a riaprirsi senza volerlo.

Era l’ordine silente dei suoi occhi a dominarmi ?

Così grandi e bui come un mare senza luna, avevano anche il potere di scaldare, ma in quel momento portavano il gelo di una pietra fredda.

Fu la sua mano ad ammorbidirsi per prima.

Mi accarezzò una guancia, mi sollevò sul capo il cappuccio della tunica e mi fece cenno di seguirla.

Non era quello il tempo e il luogo per fare domande.

Avevamo trascorso la notte precedente all’aperto, sotto a una grande tettoia che faceva da riparo a chi avrebbe dovuto dormire nei pressi del porto.

Ero contenta di poter stare sotto le stelle, era la prima volta che andavo oltre i confini delle nostre terre e riconoscere nel cielo lo stesso disegno, sapere che nulla lassù cambiava, mi faceva sentire meno estranea, mi confortava.

Quanta gente quel giorno al porto! Non parlai con nessuno: ero sorpresa, affascinata, intimorita. Mai mi sarei immaginata una così grande varietà di uomini e donne. Avevano carnagioni, dialetti, sguardi differenti e anche gli abiti che rindossavano avevano tagli e colori propri e specifici.

Nei movimenti, i gesti erano diversi. Un altro modo di sollevare una spalla o di posare il piede a terra. Ognuno era mescolato agli altri come ingredienti di un unico pasto.

Anche io e Abula.

Così quando Abula mi chiese dove avessi voluto sdraiarmi per dormire, mi avvicinai a un gruppo di uomini, seduti intorno a un fuoco. Non c’era luna quella notte e io volevo poter osservare ancora un po’.

Le bisacce ci facevano da cuscino, le ampie tuniche da coperte.

La voce degli uomini copriva appena quei trenta passi di distanza e non avrebbe disturbato il nostro riposo.

Abula si addormentò subito.

Il vento cambiò il suo giro.

Trasportate dall’aria, quelle voci indistinte diventarono parole, le parole frasi, le frasi una storia.

La loro storia.

Raccontavano di una guerra, dei loro eroi, di nemici sconfitti e di un ritorno trionfale. Raccontavano dei loro avi, dei loro padri e delle stirpi che da quella gloria erano nate.

E mentre parlavano mi accorsi che la loro storia era anche la mia storia: lo riconoscevo dai nomi, lo riconoscevo dai fatti.

Ma cosa stavano dicendo ? Quale trionfo ? Quale gloria ?

Avevano vinto la guerra, sì, ma con la codardia di un inganno.

Nessun valore di una battaglia a viso scoperto, solo trame intessute nell’ombra.

E i loro eroi, i loro padri, quali stirpi avrebbero potuto generare se più della metà fu trafitta dalle nostre spade ?

Anche il loro grande capitano si schiantò contro il furore della mia regina ingannata.

E quella gente al porto di cosa si stava vantando ? Non sapevano che il loro popolo era stato costruito su qualcosa di falso ? Io sapevo la verità perché da generazioni era tramandata dal mio popolo.

Ero furiosa. E poi confusa.

Qualcuno aveva mentito. Ma chi ? Loro ? Noi ?

Non riuscivo più a muovermi. Non sentivo più il mio corpo. Tenevo gli occhi stretti e da dentro le palpebre vedevo danzare macchie arrossate dalle fiamme del fuoco. Volevo il buio. Volevo che quegli uomini tacessero. Volevo silenzio.

Ma l’oblio del sonno non venne in mio aiuto.

Al mattino Abula si svegliò non appena si spense l’ultima stella della notte.

Non le lasciai nemmeno il tempo di raccogliere le sue cose. Le riferii subito quanto avevo udito. Lei di sicuro avrebbe fatto qualcosa. Ma non tremò di sdegno come avrebbe dovuto, come avrei voluto.

Nemmeno mi confortò. Mi disse invece che ero un’ingenua, una bambina che si lascia sconvolgere da parole uscite dalla bocca di qualche sconosciuto.

Una storia esiste solo quando qualcuno la racconta.

Quando la seguii di nuovo per quei sentieri labirintici tenevo gli occhi fissi alla sua schiena. Reestavo incollata alla mia Abula per non perdermi. Sempre due o tre passi davanti a me, la vedevo muoversi agile tra persone, banchi e carri pieni di merci di ogni tipo. Non camminava semplicemente ma scorreva negli spazi come un soffio di vento. E io, dietro di lei, come lei ondeggiavo seguendo il ritmo del nostro respiro. Con sollievo mi abbandonai al corpo facendomi cullare dai suoi movimenti ritrovati.

Quella notte sul carretto, di ritorno dal porto, noi due di nuovo sole, riempii di coraggio la mia gola e pronunciai a voce alta quelle parole che fin dal mattino snocciolavo nella mente come semi da preghiera.

Ma Abula com’è possibile che la stessa storia sia raccontata in modo diverso ?

Abula emise un lungo sospiro mentre con una mano spostava la lunga treccia sull’altra spalla.

Seduta di fianco a lei ora potevo vederle l’incavo del collo. Era lì che mi rifugiavo da bambina per nascondere le lacrime quando qualcuna delle mie compagne mi faceva dispetto.

Solo con Abula mi permettevo di piangere.

Che ti importa ?

Voglio sapere la verità.

Che ti importa ? Ogni storia che viene raccontata è vera. Guarda mi disse indicandomi una stella. E muoveva il dito come per grattarla via dal buio.

Riesci a contare quante stelle ci stanno osservando ? Ognuna di loro avrà da raccontarti la sua storia , ma nel cielo si muovono tutte insieme.

Ed esistono storie non raccontate ?

Abula alzò le spalle. Forse, rispose. E fermò il carro.

Alzai lo sguardo al cielo. Il disegno del cielo continuava a spostarsi lungo la sua volta. Mi addormentai.

Sognai di sciogliere la treccia di Abula e di separare ogni capello dall’altro. Percorrendoli dalla punta alla testa, tra le dita potevo sentire ogni loro consistenza meravigliandomi di non trovarne due uguali.

La treccia di Abula.

Quando lei morì le abbiamo composto i capelli sul petto prima di bruciarne il corpo.

La mia treccia invece l’ho tagliata molto tempo fa perché nessuno vi si potesse più aggrappare.

Quello stesso giorno scelsi anche di smettere di parlare.

Dopo che il mio villaggio fu distrutto e la mia gente trucidata da quegli uomini venuti da lontano, non avevo più parole.

O meglio ne avevo così tante ammassate nel corpo che le sentivo come un fiume in piena e la lingua una montagna franata nell’acqua che impediva il suo fluire.

Mi sentivo soffocare, qui tra petto e gola.

Non sapevo più da che parte cominciare a dire. Cosa dire. Le parole, non riuscivo più a dar loro un ordine e un senso.

Davvero erano convinti che distruggendo terre e corpi avrebbero spezzato anche il nostro spirito ?

Sorridevo della loro ingenuità. Li vedevo abbassare gli occhi come bambini pieni di vergogna, impauriti davanti a me dopo che avevo curato e guarito il loro re.

Mia sorella si arrabbiò e non solo lei. Ma cos’altro avrei potuto fare ?

Lo sapevano anche loro: ci avrebbero lasciati in pace. E così fu.

Lei restò a ricostruire quanto perduto, a cercare di ridare alla polvere la sua forma originaria per ritrovare la nostra identità e da lì ricominciare.

Altri invece decisero di andarsene e io fui tra quelli.

Ci salutammo, noi sopravvissuti, con un pasto frugale sotto alla luna che stava crescendo.

Non era una festa, ma il silenzio che ci circondava non era lugubre: ognuno avrebbe percorso la propria strada.

L’indomani partimmo.

Dopo pochi passi mia sorella mi corse incontro per abbracciarmi un’ultima volta.

Fu l’ultima persona a pronunciare il mio nome. Quando in seguito mi separai anche dai miei compagni io, muta, come avrei potuto farlo sapere a qualcuno ?

E me ne diedero un altro.

La donna uccello mi chiamavano.

La voce si era diffusa e mi venivano a cercare ovunque fossi perché c’era sempre qualcuno da curare, da guarire. Qualcuno di così caro per cui valeva la pena sopportare le fatiche di un lungo viaggio, di una ricerca incerta di paese in paese seguendo il filo di una speranza.

Io ero diventata quella speranza.

Se Abula l’avesse saputo si sarebbe messa a ridere così forte da far zittire tutte le cicale per lo spavento.

È un onore, mi avrebbe detto.

Lo so. Avrei risposto.

E io mi spostavo percorrendo quel filo a ritroso. Leggera e sottile ondeggiavo nel mio respiro come un uccello che sa come farsi portare dalle correnti. Le mie braccia erano ali e le mie dita piume che accarezzavano quei corpi esausti e pesanti, fino a svaporare il buio caduto nei loro occhi. Qualcuno la chiamava magia.

Dicevano che riuscivo a sconfiggere malattie che nemmeno i loro guaritori più bravi riuscivano a vincere. Ma non c’era niente da combattere.

Il mio non era un dono e nemmeno un segreto. Semplicemente, paziente, ascoltavo quello che quei corpi avevano da dirmi. Carne, ossa, il rumore del sangue raccontavano alle mie dita la loro storia.

Imparai che esistono storie non raccontate, si trovano nei corpi. Racconti non detti, non capiti forse perché intraducibili, ma reali e cresciuti nel corpo e lì conservati, per non perdersi, in un pacchetto legato così stretto da fare male.

Io che non parlavo potevo capire la lingua del corpo. Nel mio silenzio ho sciolto i lacci di storie imprigionate nelle stesse persone che le avevano vissute. Con le dita le ho ascoltate e con le dite a quegli stessi corpi raccontate. Così da poter essere ricordate.

Molte stagioni sono passate, le stelle hanno percorso così tante volte l’arco del cielo che ne ho perso il conto.

I miei capelli si sono striati d’argento e io continuo a percorrere la strada che ho scelto.

Ho trattenuto nelle mani ogni laccio che ho sciolto, non volevo liberarmene. E quei fili si sono aggrovigliati per poi trasformarsi in anelli di pietra bollente incastrati tra le mie nocche.

Ora le piume delle mie dita non possono più essere portate dalle correnti, sono diventate sorde e non riescono più a raccontare.

Ma dove non è più aria è tornata l’acqua.

Col tempo il fiume ha eroso la pietra, i massi che mi ostruivano la gola sono rotolati via.

Ogni laccio è una storia che il mio corpo ha conservato finché ho ritrovato la voce. Non come l’avevo lasciata, ma più ricca, nutrita dalle storie delle persone che ho incontrato, che ho liberato.

La mia voce è anche la loro, anche la tua. Insieme racconteremo.

Una storia esiste sempre quando qualcuno la racconta.


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